Lo rileva uno studio condotto dal Dipartimento di Epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio che descrive la speranza di vita alla nascita e i differenziali socioeconomici di questo indicatore, evidenziando che ci sono fino a tre anni di differenza di speranza di vita alla nascita per gli uomini e due anni per le donne a seconda del Municipio di Roma in cui si risiede
È ormai evidente una forte relazione causale tra posizione socioeconomica e stato di salute. In linea con questa aspettativa, i primi registri della mortalità indicavano infatti l'esistenza di una associazione inversa tra status socioeconomico e mortalità: più elevato era lo status sociale, maggiore l’aspettativa di vita. Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono verificati molti cambiamenti importanti che avrebbero dovuto ridurre drasticamente, se non eliminare, i differenziali socioeconomici nella salute. In primo luogo, le malattie infettive – che colpivano soprattutto i bambini - sono diminuite come fattore principale di mortalità, e poi la maggior parte delle famiglie ha potuto disporre di condizioni igieniche, sanitarie, alimentari nettamente migliori rispetto al passato.
La speranza di vita alla nascita, infatti, rispetto al secolo scorso è aumentata di circa 40 anni, un dato impressionante che ha anche determinato una forte transizione demografica e una transizione epidemiologica, passando attualmente a una prevalenza di mortalità per cause croniche nella popolazione anziana (se escludiamo la parentesi Covid che ha sparigliato un po’ tutto).
Tuttavia, nonostante questi sviluppi, le disparità socioeconomiche nella morbilità e nella mortalità persistono, e questo legame è davvero allarmante. Più ci si trova in alto in questa scala, insomma, migliore è la condizione di salute; sebbene sia fondamentale rivolgere l’attenzione non solo alla povertà ma più ampiamente alle disuguaglianze, a quello che Michael Marmot definisce come il gradiente sociale di salute.
Lo status socioeconomico inoltre è strettamente collegato al luogo in cui si vive, e come in molti paesi d’Europa, anche in Italia riscontriamo differenze geografiche in tal senso, osservate sia a livello regionale che locale, soprattutto nelle grandi città.
Andrebbe modificata la logica del rapporto del sistema con i cittadini e, per citare Walter Tocci, quello che occorre in tal senso è “una sanità che definisca le sue priorità in base ai bisogni, prima che in base alla domanda di prestazioni, che misuri la sua qualità e la sua efficacia sui risultati di salute e non sulla sua capacità produttiva”.
Questa possibilità, sostiene il dottor Carlo Saitto, “oggi c’è, è di fronte a noi, tuttavia questo approccio a livello di gestione sanitaria viene spesso scartato”.
In quest’ottica allora, tornando al tema dei differenziali in base alla distribuzione territoriale, avvicinare centro e periferia è importante, ma se parliamo di decentramento dobbiamo tenere presente anche altri fattori. Come sottolinea Barbara Pizzo - Docente di Urbanistica alla Sapienza, Università di Roma, e Presidente di Roma Ricerca Roma -, infatti “non possiamo sottovalutare il fatto che anche la distribuzione del personale medico-sanitario e delle posizioni organizzative tendono a seguire la stessa distribuzione residenziale della popolazione”; per cui se non si considera questo aspetto è molto difficile possa avvenire un sostanziale cambiamento.
La parità di accesso al sistema sanitario resta un obiettivo legittimo e auspicabile, finanche fondamentale, ma è probabile che svolga solo un ruolo limitato nell'eliminazione delle disuguaglianze nello stato di salute, e queste non saranno eliminate se permangono quelle strutturali che continuano ad allargare la forbice dei differenziali socioeconomici.
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