Via libera dal ministro del Lavoro alla disciplina delle cosiddette attività “diverse” per la cui piena operatività si attende ora la firma del Ministro delle Finanze e la successiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Quali sono, dunque, i criteri per lo svolgimento delle attività diverse e, in particolare, quali i limiti alle entrate derivanti da queste ultime? Le risposte in questo focus.
Arriva un altro tassello per il completamento della riforma del Terzo settore. Il Ministro del Lavoro Andrea Orlando ha infatti annunciato, lo scorso 30 aprile, la firma del decreto che disciplina le c.d. attività “diverse” per la cui piena operatività si attende ora la firma del Ministro delle finanze e la successiva pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Si tratta delle attività commerciali che gli enti del terzo settore potranno svolgere in via secondaria e strumentale accanto agli obiettivi principali di interesse generale. Rientrano in questa categoria, ad esempio, le entrate derivanti dalle sponsorizzazioni o dalla vendita di beni e prestazioni di servizi, attraverso le quali solitamente gli enti reperiscono risorse per finanziare gli scopi principali. Attività, queste, che finora venivano regolate con criteri e requisiti eterogenei a seconda della tipologia di enti. Verranno assorbite nelle attività diverse, ad esempio, quelle c.d. “connesse” previste per le ONLUS oppure “marginali” per le organizzazioni di volontariato.
Con la riforma del Terzo settore tutte le tipiche attività commerciali diverse da quelle di interesse generale vengono, dunque, ricondotte all’interno di una unica categoria, con una disciplina finalmente uniforme per tutti gli enti. Questa regolamentazione permetterà di raggiungere due obiettivi importanti. Da un lato superare le incertezze legate alla possibilità per gli enti non profit di potersi finanziare svolgendo attività commerciale che non rientra tra gli scopi principali, purchè siano rispettati paletti ben precisi. Dall’altro stabilire regole valide per tutti al fine di evitare che si possano utilizzare gli enti non profit come scorciatoia per svolgere vere e proprie attività commerciali mascherate dietro lo schermo formale del terzo settore. Uno schema troppo spesso favorito dalla concessione di incentivi fiscali a pioggia non accompagnati da puntuali regole di trasparenza.
Ma quali sono, dunque, i criteri per lo svolgimento delle attività diverse e, in particolare, quali i limiti alle entrate derivanti da queste ultime?
Un primo aspetto da considerare riguarda la secondarietà. Gli enti del terzo settore dovranno, infatti, garantire lo svolgimento in via prevalente delle attività di interesse generale. Per questa ragione le attività diverse sono ammesse purchè rientranti in due parametri alternativi.
Il primo prevede, come per le imprese sociali, che i ricavi derivanti da questo tipo di attività non siano superiori al 30% dei ricavi complessivi dell’ente. Il limite potrà essere “elastico”, ovvero laddove si dovesse superare la soglia per una annualità sarà possibile recuperare la differenza l’anno successivo. Ad esempio, in caso di entrate da attività diverse pari al 40% (quindi del 10% superiore alla soglia) sarà necessario rispettare il limite del 20% l’anno successivo. Il secondo parametro per rispettare la secondarietà prevede che i ricavi da attività diverse non possa superare il 66% delle spese complessive dell’ente. Sarà quest’ultimo, molto verosimilmente, il parametro più gettonato dai tantissimi enti che svolgono attività principale in forma gratuita o senza ricevere corrispettivi veri e propri. A favorire l’utilizzo di questo criterio concorrerà anche il fatto che tra i costi complessivi potranno essere considerati quelli figurativi riguardanti l’impiego dei volontari.
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