(scritto da Attiviste a attivisti della scuola San Basilio)
La scuola popolare di San Basilio nasce circa cinque anni fa, nasce e si sviluppa per una necessità personale di fare qualcosa che fosse utile per il quartiere e per le persone e dove, insieme, si potesse crescere e informarsi e comunicare. Eravamo appena ventenni e dall’iniziativa di un singolo siamo diventate molte e molti. Oggi siamo educatrici/ori, insegnanti, abitanti del quartiere, operatrici e operatori che lavorano nel sociale o persone sensibili a certe tematiche o che credono in pratiche educative olistiche che vadano incontro ai/alle raggazze/i e che siano inclusive e a forma di bambini. È interessante come certe realtà autogestite e spontanee nascano sempre in contesti che qualcuno ama definire “degradati e pieni di droga e disagio sociale”… San Basilio, come tutte le realtà simili a questa sparse nel mondo, non è solo questo!
Basti pensare che la scuola popolare e il centro popolare che la ospita (tra le altre molte attività) non ci sarebbero senza la popolazione locale. É grazie a loro se i bambini/e e i/le ragazze del quartiere hanno un luogo dove trovare ascolto e sostegno per i compiti, un luogo dove socializzare e condividere giochi e merende, un luogo dove chiunque è la scuola popolare: dal nonno di quartiere sempre pronto a raccontare una storia, alla mamma che prepara un dolce fino ai genitori che mettono a disposizione di tutti le proprie competenze professionali in caso di guasto elettrico o simili. Sarebbe però da ipocriti non denunciare una situazione di disagio; situazione di disagio che pone le radici nella mancanza di lavoro, nell’incuria in cui lo Stato lascia alcuni angoli di territorio, quasi sempre alle estremità della città, nella mancanza di servizi e spazi verdi, nella scarsa varietà di opportunità, che siano sportive , educative, professionali o di svago. La scuola popolare, con la sua attività, non si propone di ribaltare questa situazione, sarebbe impossibile e non spetta a questa piccola realtà farlo. La scuola popolare vuole instillare curiosità, creare opportunità e svelare i confini, eliminare quella rete immaginaria che è stata creata per contenere e ghettizzare, ugualmente, si vuole mantenere e coltivare una realtà popolare ma soprattutto tutelare una memoria storica di cui questo quartiere è pregno. Raccontare e tramandare il passato vuol dire raccontare e coltivare la storia e lo sviluppo della città in cui tutte e tutti viviamo e quindi unire e condividere, che sono le parole chiave del nostro attivismo.
Noi siamo nelle case popolari occupate, costruite negli anni Ottanta, diverse dagli edifici popolari degli anni Sessanta e Settanta, il “centro storico” come lo chiamano, che vengono viste dagli abitanti storici di San Basilio come ricettacolo di criminali. Quindi San Basilio è ghettizzato dall’esterno e poi al suo interno tra gli abitanti più storici delle case popolari e quelli più nuovi delle case occupate.
Il primo gruppo della scuola popolare era di cinque persone, tre di San Basilio e due di fuori, ma un fuori limitrofo al quartiere. Poi il gruppo si è allargato soprattutto alle persone che conoscevo all’università, futuri educatori o già educatori, comunque delle persone che sapessero cosa fare con bambini che qui non sono facili da gestire. Sono bambini con un grande disagio sociale. Soprattutto chi era all’interno dell’università ha allargato molto e molti sono venuti, ci sono stati molti studenti di Roma Tre e ci sono due studentesse della facoltà di pedagogia dei Salesiani e poi ci sono ragazzi del quartiere che piano piano si avvicinano. Ma essendo qualcosa di volontario il gruppo di attivisti cambia continuamente. Dipende dalle esigenze e anche dalla vita delle persone, però il gruppo rimane molto saldo, siamo sempre sulle dieci persone. Quest’anno sono arrivate due signore di 75 anni in pensione, una viene da Piazza Bologna e l’altra dalla Rustica, due signore meravigliose che stanno con noi, e non è facile perché lì anche quando i bambini sono solo dieci è già abbastanza pesante.
Seppure molte persone vengano da fuori il nucleo principale della scuola è fatto da persone che vivono e lavorano nel quartiere. E soprattutto viviamo la grande fatica della scuola in generale, della scuola istituzionale. Siamo stati i primi a inventarci qualcosa per aiutare i bambini con la scuola. Il primo anno per esempio abbiamo sentito la necessità di lavorare sulla loro insicurezza, l’insicurezza che veniva dalla loro scarsa educazione e che si generava principalmente a scuola. Venivano bambini e ragazzi che erano insicuri e che non riuscivano a fare nulla, non perché avevano qualche disturbo, ma semplicemente perché erano insicuri. Ci siamo domandati perché. Perché è molto difficile stare nelle scuole di periferia, per esempio nella mia esperienza personale e quella di molti di noi io ci sono passata, ci sono cresciuta e ancora oggi sono molto insicura su come parlo, su come espongo i miei pensieri, su come scrivo. Anche all’Università è stata veramente pesante. Come scuola popolare ci siamo chiesti proprio questo, perché io a 20, 22 anni mi sento inferiore a un’altra persona che andava in un’altra scuola o che ha una famiglia con un capitale culturale migliore della mia famiglia? Quindi lei è più di me? E così abbiamo cominciato a ragionare sulle classi sociali e sulla crescita, sull’importanza dell’educazione.
Non si può non parlare delle classi sociali, e di quanto l’educazione divida la popolazione in due e quanto le periferie lasciate a se stesse producano in continuazione devianza, criminalità e ignoranza soprattutto. E noi questo, da ragazzi di 22, 23, 24 anni, non lo potevamo accettare, perché parliamoci chiaro: o rimani dentro un quartiere e fai qualcosa o te ne vai. Cioè noi che siamo un po’ più nella media, dobbiamo fare qualcosa per gli altri del nostro quartiere, noi che abbiamo un po’ più di cultura e che comunque ci sentiamo insicuri davanti a un professore, davanti a una persona più grande che ne sa di più, davanti a un nostro stesso pari che ha avuto un’educazione diversa, abbiamo comunque qualche strumento in più per aiutare quelle famiglie che erano vicino a noi mentre crescevamo nel quartiere e non hanno avuto le stesse possibilità.
E quindi cinque persone hanno detto “aspettate un attimo, facciamo qualcosa”.
Ho iniziato a fare Storia dell’arte all’università e sono scappata, sono scappata perché non mi sentivo all’altezza e questa cosa ti fa pensare: perché io che non sono stupida, anzi sono anche molto sicura di quello che ho letto, di quello che ho imparato e delle esperienze che ho fatto e della mia famiglia, di quello che mi ha trasmesso, perché mi devo sentire così inferiore rispetto ai miei coetanei che hanno avuto un altro tipo di educazione, che vengono da altre classi sociali? Queste sono le domande che si fanno i ragazzi in un quartiere completamente degradato da 30 anni, da quando è arrivata la droga negli anni ’80 e tutto è cambiato, lo dicono anche i nonni: è un quartiere che nasce per ghettizzare le persone, cioè l’urbanistica è determinante nel creare il disagio sociale. Quindi quando tu isoli una parte di popolazione, la isoli per generazioni, all’interno di un quartiere periferico e degradato questo succede: non può accadere altro che avere il 40% delle persone che lavora grazie alle criminalità organizzata. E quindi cinque persone hanno detto “aspettate un attimo, facciamo qualcosa”. Io sto studiando pedagogia, Ilaria sta studiando servizi sociali, Alessandra sta studiando psicologia, Federico sta diventando un sindacalista, cioè capiamo che cosa fare per il nostro quartiere perché ci viviamo e forse ci vivremo per sempre per nostra scelta o per una scelta anche economica perché non ti puoi permettere affitti più alti in altre zone della città.
Questo è stato il primo pensiero per noi stessi e per le generazioni future. Noi non vogliamo che altri bambini e altri ragazzi diventano da adolescenti un palo per la criminalità organizzata. L’obiettivo è proprio questo, dare un’alternativa, dare uno spazio in cui anche se a quattordici anni vuoi fare il palo e vuoi lasciare la scuola, ti fermi un attimo, ci pensi e ti dici: “che faccio?”. Già il fatto di venire da noi e domandarci insieme “che faccio, vado a fa’ il palo o vado a scuola?” questo è già un obiettivo che vorremmo raggiungere. Il nostro obbiettivo è proprio questo, che almeno un ragazzo o una ragazza pensa che cosa scegliere, se entrare in un mondo in cui hai sei mila euro al mese anche se puoi uscire ed entrare dal carcere a vita o altrimenti fare il ragazzo normale e farsi un culo così, perché questo è.
Per chi cresce e vive in un quartiere come San Basilio il confronto con l’esterno è importantissimo. Per noi, il rischio è quello di cominciare a pensare normali cose che non lo dovrebbero essere. È importante rimanere vigili, e avere vicino come dei grilli parlanti che ti ricordano che non è normale che un bambino di tre anni sappia che se qualcuno grida “piove” vuol dire che stanno a venì le guardie e quindi bisogna nasconde tutto. Non lo deve sapere il bambino di tre anni, il bambino di tre anni non deve bestemmiare, un bambino di tre anni non dovrebbe dire parole che quando le ascolti dici “ma da dove gli vengono?”. Certe volte, in effetti, noi del quartiere questa cosa ce la scordiamo e ci serve il confronto con gli altri che ci dicono: “aspettate un attimo, lavoriamo su questo”. Se certe cose diventano normali poi non riesci a cambiarle perché ti ci sei abituato.
Nello stesso tempo sono fondamentali gli educatori che nascono e crescono e lavorano nel loro quartiere perché poi ci devi sta’ coi bambini, e se stai con i bambini stai anche con le famiglie, e dato che stai davanti a una piazza di spaccio devi parla’ pure con gli spacciatori e non tutti lo sanno fare. Cioè la forza di un gruppo sta nel fatto che hai delle persone che vivono e che hanno sempre vissuto in quel contesto ma che hanno studiato e vogliono cambiarlo, accanto a persone che non sono di quel contesto e quindi possono dare ancora più confronto, ancora più discussione, più impegno, più cambiamento ed evoluzione.
L’educativa di strada per noi è stare dei giorni fissi in un posto, in un luogo, come per esempio i lotti delle case popolari, e fare attività strutturate, fare sostegno scolastico, stare con le famiglie e non stare solo con i bambini e i ragazzi, e creare una… non dico una comunità educante, no, perché la comunità educante comprende anche la scuola e altre cose, ma una piccola comunità di persone che capiscono quanto sia importante soffermarsi e approfondire una tematica. La cosa fondamentale è la continuità, senza continuità non succede nulla di nuovo.
Siamo in continua evoluzione, in un continuo confronto cercando di lavorare sul disagio così come dovrebbero fare le scuole popolari che credono che le classi sociali ancora esistono e che bisogna cambiare questa cosa. Il difficile è tenere insieme i due aspetti del lavoro educativo: da una parte far stare bene il bambino e dall’altro lavorare sulle sue condizioni socio-economiche. Cioè io posso far stare bene un bambino con dei bei laboratori creativi, gli parlo, facciamo musica, facciamo teatro, di tutto, però poi bisogna anche far capire al bambino, al ragazzo che tu ci sei non solo per fare il laboratorio e per giocare e per parlare, ma ci sei in qualunque momento perché vuoi cambiare le cose. E questo secondo noi fa una grande differenza. Fare attivismo politico è anche questo. Stare vicino al disagio, Ritorni a casa e sei stanca morta, non perché hai fatto il manovale in un cantiere, ma sei stanca mentalmente perché in una stessa giornata il linguaggio cambia in continuazione a seconda di chi hai davanti: il bambino, il ragazzo, lo spacciatore, la famiglia, la scuola, gli educatori ecc. ecc.. Cambia in continuazione il linguaggio, cambia in continuazione la comunicazione e cambia in continuazione l’osservazione, la visione e tu che hai scelto di starci devi osservare, devi apprendere, devi rielaborare per poi cambiare. Eh però noi stamo in guerra, cioè a me me stanno a fa’ la guerra, quindi io me devo difende’. È questo.
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