(di FELICE CIMATTI su fatamorganaweb.it/). Circo. Un immaginario di città ospitale di Laboratorio CIRCO.
«Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente» scrive Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (parte prima, § 115). L’immagine che ci dice sempre la stessa cosa è quella della città come uno spazio minacciato dall’esterno, che subisce la pressione di chi vuole entrarci, di chi abbiamo paura che voglia prendere il nostro posto. Un’immagine che è così potente proprio perché non ci rendiamo conto che è soltanto un’immagine. Così crediamo di vedere la nostra città, e vediamo invece l’immagine della nostra città. Una città che così ai nostri occhi impauriti si trasforma in un luogo pericoloso, un luogo da proteggere, un luogo da chiudere e in cui rinchiudersi.
Ma non ogni cerchio è destinato a chiudersi e a chiudere, al contrario. Quello che si vede nella fotografia qui sopra, tracciato con il gesso in quello che una volta era il foro Boario del vecchio mattatoio di Roma, nel quartiere di Testaccio, è infatti il cerchio attorno a cui prenderanno posto i tavoli delle tante e diverse iniziative e comitati che cercavano (la foto è del 1999) e cercano di immaginare una città diversa; una città, ad esempio, in cui la comunità dei Rom possa essere ospitata (e quindi avere una casa) senza discriminazioni e paure. Si tratta quindi di un cerchio che apre, non di un cerchio che si chiude su di sé. L’idea del collettivo CIRCO – Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e l’Ospitalità, un collettivo che prende voce nel libro Circo. Un immaginario di città ospitale – è mettere al centro di questa città non impaurita proprio l’ospitalità intesa come un «abitare fra diverse facendoci reciprocamente spazio» (AA. VV. 2021, p. 16).
Non è che lo spazio sia già delimitato, già proprietà di qualcuno, uno spazio da cui deve essere malvolentieri tirata via una fettina per lasciarla all’altro, all’ospite più o meno desiderato che viene a disturbarci da fuori; l’idea invece è che lo spazio urbano è costitutivamente aperto e, non appartenendo a nessuno, è sempre in corso di ricontrattazione e ridefinizione. Il punto da ribadire è che lo spazio comune non è finito, come nel caso di una torta: una città, per non parlare di una città grande e stratificata come Roma, non è finita per definizione, è piena di spazi liberi (abbandonati o da adibire ad un altro uso), spazi che non chiedono altro di essere resi pubblici, aperti cioè alle comunità che li occupano e li rendono vivi. Spazi pubblici, cioè né privati né statali, spazi affidati alla cura e all’attenzione della comunità. Una città ospitale è infatti una città che sa prendersi cura di sé stessa, autonomamente.
Su questa idea di città si innesta, come dice l’artista e architetto Francesco Careri, l’idea del CIRCO, da intendere come un «simbolo del movimento perenne che trova ospitalità tra gli scarti urbani e nei piazzali polverosi dove finisce la città. […] Il circo è la tenda nomade che si fa monumento, è la colorata gonna gitana che si fa spazio e che si mostra fiera della propria alterità, come lo sguardo di sfida di una zingara» (ivi, p. 21). Il circo non è fisso in un luogo, il circo è sempre in movimento, e muovendosi porta la sua meraviglia in giro per le città; in questo modo il circo ricorda alla città che è anch’essa una comunità nomade, anche se su tempi più lunghi e dilatati. Allo stesso modo la città ricorda al circo che è sempre una comunità sul punto di diventare stanziale. Il circo destituisce la città come luogo definitivo ed eterno, così come la città non permette al circo di dimenticare che una città nomade non smette per questo di essere una città, almeno potenziale.
In questo senso, prosegue Careri, «il circo è il nomade socialmente accettabile e nel clima xenofobo di oggi rievocare la sua immagine è molto utile a una diversa narrazione dei tanti altri tra le nostre culture. Il circo è desiderabile […], è irrinunciabile, indomabile, irriducibile, è proprio la contraddizione di cui sentiamo bisogno: un luogo capace di perpetuare la sua alterità mantenendo la tensione alta, senza sfociare nel conflitto» (ivi, p. 22). Careri sottolinea il punto decisivo, il circo «è proprio la contraddizione di cui sentiamo bisogno». Se torniamo per un momento all’immagine «che ci teneva prigionieri» di cui parlava Wittgenstein, l’immagine ci imprigiona proprio perché non ci rendevamo conto di essere stati catturati da un’immagine di prigionia e paura.
Ecco allora il circo, ecco il nomade, il giovane che viene dall’Africa, la donna con una gonna colorata e sgargiante; l’immagine che imprigiona si sfalda, e improvvisamente vediamo non tanto l’altro, quanto vediamo noi stessi rinchiusi in una città impaurita: vediamo noi stessi come altri. Per questo avevamo bisogno di una «contraddizione», per vederci con gli occhi di un altro, e quindi per vedere la nostra paura. Allo stesso tempo l’altro della città ospitale ci propone un modo diverso di vivere, che ancora una volta mette in questione il nostro, a cui siamo ormai così abituati da esserci dimenticati che un tempo avevamo pensato di poter vivere in un altro modo.
Si tratta allora di pensare la città non più a partire dalla nozione di accoglienza bensì da quella di ospitalità. La relazione di accoglienza è asimmetrica, c’è qualcuno che accoglie e qualcuno, in una situazione di bisogno, che viene accolto.
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